I 28 mesi di Luigi Di Maio alla guida del Movimento 5 Stelle

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JACOPO LANDI / NURPHOTO

 Luigi Di Maio

Ventotto mesi. Poco più di due anni è durata la leadership di Luigi Di Maio, che ha guidato il Movimento 5 stelle portandolo dalle piazze fin dentro i palazzi che contano, diventando la maggiore forza di governo, prima alleata con la Lega e poi, dopo la crisi voluta e cercata da Matteo Salvini, con il Pd.

La parabola del ‘prescelto’ a trasformare i 5 stelle da Movimento di protesta a forza responsabile e istituzionale si consuma in un arco temporale ristretto, che lo ha visto toccare vette altissime, conquistando percentuali quasi inaspettate e festeggiare grandi successi, fino a veder erodere il consenso elettorale votazione dopo votazione, mentre il mondo pentastellato iniziava a puntare il dito proprio contro la sua gestione troppo accentrata del potere, con divisioni interne via via crescenti.

Ed è alla viglia di quella che, salvo sorprese, si preannuncia come una nuova debacle per i 5 stelle, le regionali in Emilia e Calabria, che Di Maio accetta la ‘resa’ e lascia il timone del Movimento. Non è bastata a sopire i malumori la decisione di farsi affiancare dai ‘facilitatori‘. Non ha certo aiutato la querelle sui rimborsi, con i tanti parlamentari morosi a un passo dall’essere espulsi.

Ma Di Maio, fino ad oggi, ha sempre rivendicato la giustezza delle scelte fatte, forte dell’appoggio del cofondatore del Movimento, Beppe Grillo – intervenuto più volte in questi due anni nei momenti cruciali per blindare il leader – e del sostegno del figlio dell’altro fondatore, Davide Casaleggio. La storia politica di ‘Giggino’, come lo hanno spesso ribattezzato i critici e detrattori, nasce in Campania.

Gli esordi di un futuro capo

Di Maio dopo il diploma di liceo classico si è iscritto all’Università, in un primo momento alla facoltà di ingegneria, poi a giurisprudenza alla Federico II di Napoli. Ma alla fine ha rinunciato e non si è mai laureato. Nel suo curriculum si legge che è giornalista pubblicista dal 2007, che ha lavorato per un breve periodo come webmaster e anche come steward allo stadio San Paolo Di Napoli.

Poi, la scelta della politica con la candidatura nel Movimento 5 stelle. Nel 2007 Di Maio ha aperto il meetup di Pomigliano d’Arco aderendo così all’iniziativa di Grillo che proponeva la costituzione di gruppi di cittadini che si occupassero dei problemi del loro comune. Nel 2010 si è candidato come consigliere comunale del suo comune, ma ottenendo solo 59 preferenze non è stato eletto.

Successivamente, con le cosiddette ‘Parlamentarie’ del Movimento 5 stelle, è stato candidato online e con 189 preferenze è riuscito ad entrare alla Camera, per poi essere eletto vicepresidente di Montecitorio. Nel 2017 la svolta ‘leaderistica’: Di Maio viene eletto dalla Rete con 30.936 voti (l’82% dei votanti) candidato premier e Capo politico del Movimento il 23 settembre, in occasione della kermesse grillina di Rimini.

Il Movimento cambia pelle

Con lui, di fatto, il Movimento ha cambiato pelle: molti poteri sono accentrati nelle sue mani e le decisioni, che nella Fase 1 del Movimento venivano prese dalla Rete e dalle assemblee, adesso vengono prese direttamente da leader e talvolta ratificate da eletti e attivisti. Nel suo cursus, prima di essere eletto capo politico, Di Maio aveva già ricoperto incarichi di vertice: nominato membro del cosiddetto Direttorio del Movimento, costituito nel novembre 2014 da cinque parlamentari, scelti da Beppe Grillo con l’obiettivo di costruire il principale organo direttivo del Movimento che avesse una funzione di raccordo tra il leader e gli eletti in parlamento.

Ma il Direttorio ebbe vita breve risultando inefficace. Nel 2016 Di Maio è stato anche nominato responsabile degli enti locali per M5s. Poi, appunto, la svolta: preso in mano il timone del Movimento, Di Maio porta i 5 stelle, alle elezioni politiche del 4 marzo 2018, a toccare vette altissime: i pentastellati sfiorano il 33% dei consensi. Ed è da questa posizione di forza che Di Maio, pur dovendo rinunciare alla premiership, tratta con Salvini per la nascita del primo governo Conte.

La nascita del governo gialloverde

Di Maio è l’artefice dell’ingresso dei 5 stelle a palazzo Chigi, all’interno delle stanze che contano. Un’alleanza post-elettorale che alla partenza sembra granitica, con un contratto di governo a fare da collante. Per sè Luigi ritaglia il triplice e ‘pesante’ ruolo di vicepremier – condiviso con Salvini – e di ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico.

Ma la presenza ingombrante del leader leghista e le difficoltà del Movimento, ‘ingabbiato’ in un ruolo istituzionale e di responsabilità, costretto a mediare e a scendere a patti, spesso offuscano la leadership del capo politico, che deve fare i conti anche con l’ala non governista del Movimento, tra cui militano i pentastellati che sin dall’inizio mal hanno digerito l’intesa con la Lega.

E arrivano le prime ‘batoste’: alle europee del 2019, poco più di un anno dopo l’exploit delle politiche, il Movimento 5 stelle subisce una dura sconfitta, fermandosi a quota 17%. Un tracollo che apre le porte al malessere interno. E iniziano le prime ‘messe in mora’ del leader.

Intanto, però, Di Maio incassa battaglie storiche per il Movimento: il taglio dei vitalizi per gli ex parlamentari, la riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari (anche se il via libera finale arriva solo successivamente, con il governo Conte II), lo ‘Spazzacorrotti‘, il Reddito di cittadinanza. Ma, allo stesso tempo, i 5 stelle devono ‘accettare’ le leggi bandiera della Lega, dalla legittima difesa ai due decreti Sicurezza. Scelte che hanno minato la tenuta stessa del Movimento, con l’arrivo dei primi pesanti dissensi e, soprattutto, addii. Ma anche espulsioni di parlamentari che non si allineavano.

Le sconfitte elettorali erodono la leadership

Tra alti e bassi si arriva alla scorsa estate, al deterioramento non più ricucibile del rapporto con Salvini che, a inizio agosto, stacca la spina al governo. Seguono giorni convulsi, dentro e fuori il Movimento, con l’ipotesi di un esecutivo a traino M5s-Pd. Di Maio non nasconde le perplessità, poi ‘cede’ dopo l’intervento di Grillo, che dà il suo placet e ci mette la faccia. Nasce così il governo Conte II. Ma sin dai primi passi del nuovo esecutivo, la parabola della leadership di Di Maio continua a virare verso il basso.

Altri duri colpi arrivano dalle elezioni amministrative e regionali, dove il Movimento subisce nuove sconfitte. Cresce la fronda ‘anti-Luigi’, con ripetuti attacchi sotterranei ma anche pubblici. La forza contrattuale del Movimento al governo si assottiglia, anche a causa del dover trattare con diversi alleati (dal Pd a Leu fino ai riottosi renziani) e non più con uno solo in una sorta di pragmatico do ut des come avvenuto con la Lega.

Secondo diversi osservatori il colpo quasi ferale arriva con le regionali in Umbria: un nuovo tracollo, con i 5 stelle che scendono sotto il 10%. Si susseguono riunioni (anche ‘carbonare’) dei dissidenti, e i primi senatori, ma anche deputati, escono allo scoperto mettendo in discussione la leadership solitaria di Di Maio. Fioccano gli addii (oltre 20 i parlamentari che lasciano M5s).

Nuovamente Grillo è costretto a correre nella Capitale: il cofondatore incontra i vari ‘big’ e lo stesso Luigi. Ma è solo una tregua (armata), e anche i rapporti interni e con i vertici storici del Movimento iniziano a traballare sul serio. Fino a un passo indietro che ha preso in contropiede anche i fedelissimi.  

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