“Presunto colpevole”, una storia di pietà sospesa

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Quant’era alto Craxi: prima di tutto è per l’impatto fisico che spicca “a paragone di una classe politica normodotata”, ed è questa la prima cosa di lui che impressiona il giovanissimo cronista mandato da Palermo a Roma il giorno che lo vede da vicino: è sulla fine del 1978, quando copiosamente ancora sanguina sull’intero Paese la ferita del sequestro, e dell’assassinio, di Aldo Moro.

Quarantadue anni dopo quel cronista dalla prestigiosa carriera, Marcello Sorgi, rivive con freschezza i sentimenti, le inestricabili mosse politiche, i contrasti umani di allora e quelli di dopo, della stagione ricordata come Tangentopoli. Ne scrive col bisogno di ricomporre in un libro, sveltamente ma senza fretta, tre tempi distanti: la tragedia di Moro, il dramma di Bettino e l’adesso di un Paese segnato dai “partiti liquidi”, dove gli elettori “non vanno più a votare, perché tanto, ogni giorno, ogni ora, ogni momento si vota su Facebook e su Twitter”. Questo c’è, talora filtrato dall’esperienza personale di Sorgi, nelle 108 pagine di “Presunto colpevole – Gli ultimi giorni di Craxi” (Einaudi).

Un libro che parte da Moro, dalla vana quanto generosa pietas del leader socialista Bettino Craxi per salvarlo, che non sarà retribuita a sua volta dal fato. Perché – ventun anni, dopo cioè vent’anni fa – la medesima pietas non sarà, non fu elargita all’ex leader del Psi, per consentirgli una “soluzione umanitaria” ai fini delle cure mediche malgrado le condanne giudiziarie. Secco fu il “no” della Procura di Milano quanto esitante fu, per qualche eccesso di opportunità, l’intervento delle istituzioni politiche. Secco altrettanto fu sull’altra sponda del Mediterraneo, da Hammamet, il “no” di principio di Craxi (“esule” o “latitante”) all’ipotesi di un piantonamento in ospedale, di perizie mediche o della semplice eventualità dei successivi arresti domiciliari.

Fosse stato un altro, Bettino, magari uno di quei politici “normodotati” che ricordava il cronista, sarebbe addivenuto a un compromesso. Gli rafforzò invece il rifiuto, e non è solo per dire, l’imperterrita ossessione per Giuseppe Garibaldi: se lo sognò finanche sotto anestesia, sul tavolo operatorio di un ospedale di Tunisi, quando disse di avere sognato anche Milano dove non sarebbe tornato mai più.

“Non era solo uno che amava Garibaldi, che prima di lui se n’era andato in Tunisia per sfuggire a un ordine di cattura dei Savoia. Craxi – racconta Sorgi – si sentiva come Garibaldi. E in questo senso considerava l’esilio come un gesto estremo di libertà e ribellione. Pronto a sopportarne le conseguenze, come testimonia Gianni De Michelis, che è suo amico e prevede in anticipo che Hammamet sarebbe stata la sua Caprera”. Con una gamba piagata come l’Eroe dei Due Mondi a cui il “foruncolone” (vocabolo del pm Di Pietro) lo aveva aperto una pallottola dei bersaglieri che gli sbarrarono sull’Aspromonte la marcia verso Roma.

Non c’è presa nè pretesa di posizione nel libro di Sorgi, piuttosto l’umano tentativo di rispondere – o forse di spiegare come mai non riesca a farlo – alla domanda che gli rivolse una sera l’ex premier britannico Tony Blair: “Perché non è stato possibile costruire un corridoio umanitario per Craxi, farlo rientrare in Italia per curarsi e consentirgli una degna fine?”.

Nel ventennale della morte di Bettino, fra libri, articoli, programmi e un film dedicati alla sua fine, il volume di Sorgi è la ricostruzione di un puzzle che non si potrà chiudere: “Craxi – osserva – è stato il grande capro espiatorio di Tangentopoli. Lasciando l’italia e non volendoci tornare, se non da uomo libero, ha consentito ai magistrati di affermare che era fuggito perché era colpevole. Le forzature giudiziarie, grazie alle quali gli sono state inflitte condanne così pesanti che, malmesso com’era, non sarebbe mai stato in condizione di espiare, fanno ancora oggi della sua vicenda un caso irrisolto”.

La pietas del cronista, dote piuttosto rara in quanto non obbligatoria, gira a chi legge il quesito di mister Blair. La responsabilità di una risposta è alla fin fine, o lo dovrebbe, come quella penale. Un fatto individuale. 

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