La vicenda Uber Eats dimostra che il caporalato prospera anche al Nord

La società di delivery è l’ennesimo caso di sfruttamento dei migranti e di chi non può difendersi. Lo sostiene il Pm nella chiusura delle indagini. La manager della filiale italiana: “Abbiamo creato un sistema per disperati”

Italia paese di caporali. La chiusura delle indagini dei magistrati di Milano sulla società di delivery Uber Eats aggiunge un nuovo capitolo allo storico di sfruttamento e sopraffazione a cui troppi lavoratori sul territorio nazionale sono sottoposti. L’azienda era già stata commissariata a luglio, ora la sua posizione è stata stralciata e il 22 ottobre dovrà affrontare un’udienza alla Sezione misure di prevenzione.
Nel particolare, quelli di Uber Eats Italy avevano messo in piedi un sistema di caporalato a danno soprattutto di migranti nei centri di accoglienza in stato di bisogno, che venivano chiamati a lavorare come fattorini senza alcun tipo di tutela e sotto il giogo di misure coercitive illegali. Venivano pagati a cottimo tre euro all’ora, al di là dell’orario di lavoro, delle condizioni atmosferiche, del tragitto percorso per la consegna. Le mance lasciate dai clienti venivano di fatto sequestrate dalla società, che non le condivideva con i fattorini. Questi ultimi inoltre, si trovavano in una condizione di totale precarietà, dal momento che ogni errore sul lavoro comportava la fine immediata del rapporto o un malus sulla loro già misera paga. Per 75 ore di lavoro settimanali, quasi il doppio di quelle consentite per legge, un rider portava a casa poco più di 200 euro. C’è poi chi doveva firmare un impegno al rimborso di 80 euro nel caso avesse rovinato gli zaini per il trasporto. E così via.

(Photo by Nicolò Campo/LightRocket via Getty Images)

Abbiamo creato un sistema per disperati. Ma davanti a un esterno non dirlo mai più, anche se lo pensi, i panni sporchi vanno lavati in casa e non fuori”. Sono le frasi uscite dalle intercettazioni e pronunciate da Gloria Bresciani, la manager della filiale italiana di Uber Eats, mentre parlava con un altro dipendente della società. Discorsi che ricordano una storia simile emersa a fine agosto, sempre a Milano. Quando, cioè, la pluripremiata e pluridecorata startup da 7,5 milioni di euro Straberry, creata dall’ex bocconiano Guglielmo Stagno d’Alcontres, finiva sotto i riflettori della Guardia di Finanza per sfruttamento e caporalato. “Con loro devi lavorare in maniera tribale, come lavorano loro, tu devi fare il maschio dominante, è quello il concetto”, diceva il titolare in alcune conversazioni emerse dalle intercettazioni, “appena c’è uno che sbaglia mandalo subito a casa, così lo vedono gli altri, capito?”. Anche in quel caso, turni di lavoro massacranti, paghe irrisorie, totale assenze di tutele igienico sanitarie per i dipendenti nei campi, perlopiù stranieri.

É uno schema che si ripete quello che oggi riguarda Uber Eats Italy e che ieri riguardava Straberry. Uno schema dove dietro alla facciata smart del marchio si nasconde una quotidianità da incubo per chi quel marchio, di fatto, lo tiene in piedi: i lavoratori. Nel caso del delivery, Uber Eats Italia si è rivelata essere il problema per eccellenza, ma le altre società attive nelle consegne non sono da meno. Mentre i magistrati milanesi chiudevano le indagini, Il Manifesto racconta che aziende come Deliveroo mandavano mail di ricatto ai propri dipendenti fattorini, intimandogli di firmare il nuovo contratto presentato da Assodelivery che mantiene il sistema di lavoro a cottimo, nonostante la legge sulle Crisi aziendali che entrerà in vigore a breve preveda un contratto della logistica e una paga oraria di 10 euro per i rider. Forme di sfruttamento più soft, che raccontano bene come quello del delivery sia un sistema malato nel suo complesso e non solo nella versione, più estrema, di Uber Eats.

Ma più in generale, quello che esce da queste vicende ci racconta come il caporalato sia un cancro comune a tutta l’Italia, un problema rurale quanto urbano, del nord quanto del sud, dei lavoratori agricoli come di quelli dei servizi. L’immagine dello sfruttamento come peculiare ai campi di pomodori della Calabria o ai frutteti di arance della Sicilia è solo una versione di comodo, che cela un sistema molto più strutturato. Oltre la metà dei procedimenti giudiziari per caporalato successivi alla legge del 2016 riguardano il centro-nord e su 260 di essi, ben 97 sono relativi a settori diversi dall’agricoltura. Si tratta di un’istantanea numerica che ben racconta come l’Italia sia un paese di caporali molto più di quanto si pensi, anche in aree geografiche e settori apparentemente non sospetti. Uber Eats, Straberry, sono storie di cronaca recente che ci dicono che l’iceberg, forse, sta venendo a galla.

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