“Come ho pianto la perdita di un figlio”, la lettera integrale di Meghan Markle

Meghan Markle ha avuto un aborto spontaneo. La moglie del principe Harry lo ha rivelato in una lunga e intensa lettera pubblicata dal New York Times. Stava cullando il piccolo Archie, quando un acuto crampo l’ha fatta crollare al suolo. Poi il ricovero in ospedale e la straziante notizia della morte del bambino che aspettava. Accanto a lei, il marito Harry, con il cuore spezzato e gli occhi pieni di lacrime. Il dolore, per Meghan Markle, è diventato una via di riflessione su come la vita possa cambiare in un istante. Nel suo editoriale ha citato numerosi esempi di persone che hanno cominciato la giornata come fosse identica a tutte le altre, poi una tragedia ha cambiato il corso degli eventi. L’ex attrice ha invitato tutti ad aprirsi al prossimo, prendendosi del tempo per chiedere: “Come stai?”.

Era una mattina di luglio, iniziata come un giorno simile a tutti gli altri. Fai colazione. Dai da mangiare ai cani. Prendi le vitamine. Trova il calzino mancante. Raccogli il pastello che è rotolato sotto il tavolo. Ho raccolto i capelli in una coda di cavallo, prima di andare a prendere mio figlio dalla culla. Dopo avergli cambiato il pannolino, ho avvertito un crampo acuto. Sono crollata al suolo con mio figlio tra le braccia, mormorando una ninna nanna per tenerci calmi entrambi, quella melodia allegra in netto contrasto con la mia sensazione che qualcosa non andasse. Sapevo, mentre stringevo forte il mio primogenito, che stavo perdendo il mio secondo figlio.

Alcune ore più tardi, ero in un letto di ospedale e tenevo la mano a mio marito. Sentivo il suo palmo umido e baciavo le sue nocche, bagnate dalle lacrime di entrambi. Fissando le freddi pareti bianche, i miei occhi si appannarono. Cercai di immaginare come si sarebbe rimarginata questa ferita. Ricordai un momento dello scorso anno, quando Harry e io completammo un lungo viaggio in Sudafrica. Ero esausta. Stavo allattando il mio bambino appena nato, e cercavo di apparire serena pubblicamente. ‘Stai bene?‘, mi chiese un giornalista. Io risposi con franchezza, non sapendo che ciò che stavo per dire sarebbe stato condiviso da molte mamme e da chiunque abbia mai sofferto in silenzio. La mia risposta sembrò dare alle persone il permesso di dire la loro verità. Ma ad aiutarmi di più non è stato rispondere onestamente, ma la domanda in sé. ‘Grazie per avermelo chiesto‘, risposi. ‘Non sono tante le persone che mi hanno chiesto se io stia bene’.

Seduta in ospedale, guardando il cuore di mio marito spezzarsi mentre tentavo di tenere insieme i pezzi del mio ormai andato in frantumi, ho compreso che l’unico modo per iniziare a guarire è chiedere: ‘Stai bene?’. Quest’anno ha portato tanti di noi a un punto di rottura. Perdita e dolore hanno afflitto ciascuno di noi nel 2020, con momenti inquieti e debilitanti. Abbiamo ascoltato tutte le storie: una donna inizia la sua giornata, uguale a tutte le altre, poi riceve una telefonata che la informa che ha perso la sua anziana madre per Covid-19. Un uomo si sveglia sentendosi bene, forse solo un po’ fiacco, ma niente di straordinario. Fa il test e risulta positivo al Coronavirus e nel giro di alcune settimane lui, come centinaia di migliaia di altre persone, è morto.

Una giovane donna di nome Breonna Taylor va a dormire, come ha fatto tutte le notti precedenti, ma non sopravvive per vedere la mattina perché un raid della polizia finisce in tragedia. George Floyd lascia un minimarket, non sapendo che esalerà l’ultimo respiro sotto il peso del ginocchio di qualcuno e, nei suoi momenti finali, chiama la sua mamma. Proteste pacifiche diventano violente. La salute si trasforma in malattia. In luoghi dove prima c’era una comunità, ora c’è divisione. Oltre a tutto questo, sembra che non siamo più d’accordo su cosa sia vero. Non solo litighiamo sulle nostre opinioni, ma siamo agli opposti quando c’è da decidere se un fatto, sia veramente tale. Siamo in disaccordo quando stabiliamo se la scienza sia vera. Siamo in disaccordo sul fatto che un’elezione sia stata vinta o persa. Siamo in disaccordo sul valore del compromesso. Tutto ciò, aggiunto all’isolamento sociale richiesto per combattere questa pandemia, ci fa sentire più soli che mai.

Una volta, quando ero un’adolescente, sedevo nel retro di un taxi che sfrecciava attraverso la frenesia e il trambusto di Manhattan. Guardai fuori dalla finestra e vidi una donna al telefono, in un fiume di lacrime. Se ne stava sul marciapiede, vivendo pubblicamente un momento molto privato. Al tempo, la città era nuova per me, e chiesi all’autista se dovessimo fermarci per vedere se quella donna avesse bisogno di aiuto. Mi spiegò che i newyorkesi vivono in pubblico la loro vita personale. “Amiamo la città, piangiamo per strada, le nostre emozioni e storie sono lì dove tutti le vedono”. Ricordo anche che mi disse: “Non preoccuparti, qualcuno le chiederà se sta bene”. Ora, dopo tanti anni, in isolamento e lockdown, piangendo la perdita di un figlio, la perdita della convinzione condivisa di cosa sia vero, ripenso a quella donna a New York. E se nessuno si fosse fermato? E se nessuno l’avesse vista soffrire? Se nessuno si fosse offerto di aiutarla? Vorrei tornare in dietro e chiedere al tassista di fermarsi. Questo è il rischio di vivere isolati, dove i momenti tristi o spaventosi sono vissuti da soli. Non c’è nessuno che si fermi a chiedere: ‘Stai bene?’.

Perdere un figlio significa portare un dolore quasi insopportabile, sperimentato da molti ma di cui pochi parlano. Nel dolore della nostra perdita, mio marito e io abbiamo scoperto che in una stanza di 100 donne, 10, 20 di loro hanno sofferto un aborto. Nonostante questo dolore sia comune, l’argomento resta un tabù, pieno di vergogna (ingiustificata), che perpetua un ciclo di lutto solitario. Alcune donne hanno condiviso coraggiosamente le loro storie, hanno aperto la porta, sapendo che quando una persona dice la verità, dà il permesso a tutte le altre di fare lo stesso. Abbiamo appreso che quando le persone ci chiedono come stiamo, e quando davvero ascoltano la risposta con un cuore e una mente aperti, il peso del dolore spesso diventa più leggero per tutti noi. Con l’invito di condividere il nostro dolore, facciamo insieme il primo passo verso la guarigione. Perciò, in questa Festa del Ringraziamento, mentre pianifichiamo una ricorrenza diversa da quelle precedenti, molti di noi separati dalle persone che amano, soli, malati, spaventati e che stanno lottando in cerca di qualcosa per cui essere grati, impegniamoci a chiedere agli altri: ‘Come stai?’. Per quanto possiamo essere in disaccordo o fisicamente distanti, la verità è che siamo più connessi che mai perché tutti abbiamo sopportato questo anno. Ci stiamo adeguando a una nuova normalità, dove le facce sono coperte dalle mascherine, ma che ci forza a guardarci negli occhi, a volte pieni di calore, altri di lacrime. Per la prima volta, dopo tanto tempo, come esseri umani ci stiano vedendo veramente l’un altro. Stiamo bene? Staremo bene”.

loading...