Tutti gli ‘strappi’ di Matteo Renzi 

AGI – “Questa volta mi gioco l’osso del collo”. Esiste frase più vitalista e meno andreottiana, in politica? Una politica in cui, di norma, il Philosophari segue sempre un Deinde prima del quale c’è un Vivere e ancora prima del prima un Primum che è qualcosa di più di una enunciazione: è la natura stessa originaria delle cose. Eppure Matteo Renzi – lo sanno tutti, anche lui e ne va fiero – fa sempre così.

Su di lui lo strappo esercita un fascino incontrollabile, totalizzante e assoluto. È un’arte, una forma di vita. I detrattori (e ne ha tanti, ma a lui che gliene cale?) paragonano questa sua caratteristica, o coazione, a quella dello scorpione di Esopo, che in mezzo al fosso che attraversa a cavallo di una rana non può che pungerla sapendo che la ucciderà.

“Ma non erano questi i patti”, rantola quella, “ora moriremo tutti e due. Io avvelenata e tu affogato”. “Lo so”, risponde il killer, “ma non ci posso fare nulla: è la mia natura”. Quand’è così, che ci si può fare? Renzi ci può fare molto poco, ad esempio. Perché dello strappo ha fatto, in fondo, la sua regola di vita. E mica è sempre finito male, affogato con la rana di turno. Anzi, gli è andata benone, soprattutto i primi tempi.

Strappa con la Dc che è ancora al liceo, scrivendo sul giornalino di scuola che era ora che Arnaldo Forlani, viste le deludenti performance elettorali, abbandonasse la segreteria da poco strappata a De Mita. E qui emerge subito un prodotto secondario della sua filosofia politica che però farà fortuna: la rottamazione.

Strappare e rottamare sono due facce della stessa medaglia, due momenti della stessa strategia, due tecniche gemelle per raggiungere un uguale risultato. Dice: vincere. Sì, ma vincere stupendo, cogliendo tutti alla sprovvista, facendo spalancare le bocche e lasciando che gli altri ti guardino ammirato mentre prosegui la tua giovanile corsa verso il domani. Proviamo a rammentare qualcuno, di questi strappi. Ma solo qualcuno, perché a volerli ricordare tutti non basterebbe la Treccani.

Lo strappo con De Mita. L’ex segretario della Dc, nel frattempo divenuto esponente di spicco (ma non sempre molto tollerato) della Margherita acconsente a riceverlo nel 2006. Non ha la stessa disponibilità con tutti, ma il suo è un debole per i giovani che ritiene talentuosi (vent’anni prima, per dire, era un fan di Franceschini). Segue anche una foto di famiglia. Sette anni dopo una lunga ed intensa relazione, prende a bombardare l’ex mentore facendone l’emblema di tutto quello contro cui intende lottare. È la campagna elettorale per il referendum del 2016, e De Mita viene sfidato a singolar tenzone in uno studio televisivo. Sorpresa: il novantenne batte il quarantenne, al quale non risparmia nemmeno l’accusa di scorrettezza. 

Lo strappo con D’Alema. Pare che tutto o quasi risalga agli anni in cui Renzi è uno scalpitante presidente della provincia di Firenze e D’Alema è nel massimo del suo fulgore, Presidente del Consiglio. Ha l’idea di recarsi per esigenze di lavoro a Firenze, segue il programma della giornata e sta per rientrare quando gli fanno sapere che alla Provincia qualcuno si è offeso: il premier non è venuto a salutarlo. Le cronache ricostruiscono, chissà se è vero, che D’Alema si dice disposto a vedere Renzi, ma per favore lo si raggiunga a Peretola perché deve rientrare a Roma. Doppia offesa: non sarà dimenticata. Scatta l’operazione Rottamazione. Tempo dopo Renzi fa, nel suo primo tentativo di scalare il Pd con le primarie, di D’Alema il simbolo del vecchiume da liquidare. La cortesia viene restituita in seguito al referendum del 2016. “Di Renzi non resterà nemmeno l’odore”. Pare l’abbia detto D’Alema. Pare.

Lo strappo (presunto, “ma a pensar male” come diceva Andreotti ) con Bersani. C’era un accordo, nel 2013 che poi è l’anno in cui i grillini entrano in Parlamento. L’accordo era sul nome del nuovo Presidente della Repubblica, e avrebbe dovuto essere Franco Marini. Il “si dice” qui è atto dovuto: prove non ve ne sono; ma nei corridoi di Montecitorio lo ripetono ancora. La pistola non è fumante, ma c’è chi giura sia stata molto calda. Marini venne doverosamente impallinato al primo scrutinio. Poi toccò a Prodi, che si trovava in Africa e prese addirittura l’aereo per essere in tempo a Roma per l’acclamazione. Il drappello dei franchi tiratori radunava un centinaio di parlamentari. Tanti quanti erano i renziani. A farne le spese fu anche Pier Luigi Bersani: a lui sarebbe toccata la Presidenza del Consiglio, e invece niente.

Lo strappo con Letta. Qua c’è poco da dire “pare”. La storia se la ricordano tutti: Enrico Letta a Palazzo Chigi, lui alla guida del Pd. “Stai sereno” e tutto quel che ne consegue. Letta, al momento del cambio della guardia alla Presidenza del Consiglio, ha una faccia nera che più nera non si può. E sì che è un tipo calmo e misurato. Lo strappo con la sua stessa maggioranza. Da Palazzo Chigi Renzi governa con piglio decisionista. Lo si accosta spesso ad un democristiano, i palati più fini parlano semmai di Craxi. Ad ogni modo procede di strappo in strappo, soprattutto nei confronti della sua stessa maggioranza ed in tema di riforme costituzionali, quelle che per essere approvate sarebbe bene lo fossero se non all’unanimità, almeno per acclamazione. Ma arriverà il referendum.

Lo strappo e il controstrappo: nasce il secondo governo Conte. E qui c’è veramente da togliersi il cappello, perché è renzismo allo stato puro. Estate 2019: Papeete e qualche mojito. Renzi, divenuto intanto senatore, guida per mesi il fronte del nessuna concessione al governo dei populisti, quello gialloverde. Tiene il punto, tende l’indice accusatore verso i dialoganti, strappando nei confronti della maggioranza del suo stesso partito. Poi – ecco la mossa del cavallo – quando si profila la possibilità di un raddoppio di Conte facendo secca la Lega che ti fa? Apre, come se fosse la cosa più normale della terra, all’uomo che il governo gialloverde lo aveva impersonato come nessun altro. Zingaretti è costretto ad annuire, seppur a collo torto. Parte una nuova fase, in cui lui pensa di aver avuto un ruolo centrale. E non ha torto.

Lo strappo con il Pd. Non poteva che finire così. A forza di strappare con tutti i segretari del Pd da lui frequentati, alla fine taglia con il partito stesso. In realtà si tratta della seconda parte del controstrappo di cui sopra. Anzi, è lo strappo del controstrappo. Inizia ad essere un pò troppo complicata, la strategia. Passa infatti appena un mese dalla nascita del Conte Bis che lui concede un’intervista e dice “Inizia una nuova avventura”. Ma come, non ci si ritrovava più nel Pd? Proprio così, perché se è vero che ad agosto aveva lasciato tutti a bocca aperta, poi la centralità che si aspettava di ottenere era andata ad altri, nella fattispecie Franceschini (il buon De Mita ci vede lontano).

Nasce Italia Viva, che strappa il controstrappo dello strappo del controstrappo. Ed oggi, come nel 2016, come ai tempi di D’Alema, come a quelli del referendum, come a quelli di Marini e Prodi silurati, il mantra è sempre quello: “Stavolta rischio l’osso del collo”.

loading...