Perché ogni volta cadiamo nella leggenda delle challenge online (e quali sono i veri problemi dei minori in rete)

Pur non trovando riscontri, si accusano le “sfide” sui social network di essere un rischio per i minori che navigano in rete. I problemi, però, sono altri

(Foto: Mario Tama/Getty Images)

A riportare al centro del dibattito il rapporto tra minori e rete è stata la morte di una bambina di dieci anni a Palermo. Collegata – ma l’ipotesi finora non trova alcun riscontro – a una “sfida” vista su TikTok che consisterebbe nell’auto-infliggersi il soffocamento (detta “blackout challenge“), benché sul popolare social network non si trovino tracce di questo genere di video. Subito si è mosso il Garante per la protezione dei dati personali, per verificare le regole di accesso alle piattaforme per i minori. Un procedimento contro TikTok era già stato avviato a dicembre, contestando impostazioni predefinite non rispettose della privacy, scarsa trasparenza nelle informazioni rese agli utenti, divieto di iscrizione ai più piccoli facilmente aggirabile. E un fascicolo è stato poi aperto anche su Facebook e Instagram. Tutti i social network promettono di chiarire.

Amatissimo dalla fascia d’età che arriva fino alla prima adolescenza, TikTok è il fenomeno di questi anni. Brevi video di 15 secondi al massimo: all’inizio solo balli e canzoni mimate, poi, man mano che il format è stato esplorato, un florilegio di contenuti, dalla cucina alla didattica. Rispondere alle problematiche che un’esplosione del genere pone non è semplice.  Si intrecciano etica, responsabilità genitoriale, educazione, le ragioni dell’economia, e, ovviamente, i vissuti individuali. E la pandemia ha accelerato i processi già in atto nel campo della sicurezza in rete, alcuni stimano di circa cinque anni. Nuove fasce di utenti di tutte le età sono state reclutate mentre lockdown, didattica a distanza e telelavoro hanno aumentato, per tutti, il numero di ore trascorse di fronte allo schermo, oltre alla diffusione dei dispositivi. Abbiamo provato a mettere ordine negli eventi di questi giorni.

Il fenomeno delle “challenge”

Partiamo dalle “challenge” in rete, finite sul banco degli imputati. “Eviterei di cercare nessi causali dove probabilmente non ce ne sono” ammonisce Federico Boni, ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi alla Statale di Milano. “Il fenomeno Blue Whale di qualche anno fa è stato smontato da analisi più approfondite” sottolinea il docente, che guarda al passato: “Qualcosa di simile accadde negli anni Ottanta e Novanta con la demonizzazione dei videogiochi, che, secondo i detrattori, avrebbero portato i minori alla violenza. Peccato che i reati, in realtà, siano diminuiti costantemente negli ultimi anni”.  Ma c’è un precedente più lontano nel tempo: “Negli anni Quaranta a finire nel mirino furono addirittura i fumetti”.

Per qualcuno è un problema di leggi. Certo le norme non sono riuscite a restare al passo con l’evoluzione tecnologica. Peraltro, in un web parcellizzato, frammentato, trarre le conclusioni non è facile e il rischio di generalizzazioni induce il legislatore alla prudenza. Ma anche invocare i tribunali serve a poco.

Il reato che si chiede a più voci di contestare è quello di istigazione al suicidio, contemplato all’articolo 580 del codice penale. Ma si tratta di una norma ispirata da altro, applicata, ad esempio nel caso si favorisca l’eutanasia. Personalmente, non l’ho mai vista applicata alle sfide online”, osserva Marisa Maraffino, avvocata esperto in reati informatici. “Sul ruolo dei genitori, altro tema di cui si discute in questi giorni, una sentenza esiste già, ed è chiara: impone di installare un parental control (un filtro, ndr) sui cellulari dei ragazzi in età adolescenziale o preadolescenziale”, aggiunge. La giurisprudenza è intervenuta laddove il legislatore non è arrivato.  Anche perché calibrare un testo adeguato può rivelarsi impossibile, puntualizza Maraffino: “Chi ci dice che il ragazzo non usi il cellulare o il computer dei genitori per connettersi?”.

Sulla stessa linea Giuseppe Vaciago, consulente legale di Chi odia paga (Cop), una startup che si occupa di contrasto all’odio in rete: “Il delitto di istigazione si verifica quando vi è dolo, ossia la coscienza e volontà di determinare l’altrui suicidio. Non è punita l’istigazione colposa. Pensiamo veramente che vi sia tale volontà da parte della piattaforma, dei genitori o di chi ha postato la presunta challenge? Se sì, e se fosse dimostrato, ci troveremmo di fronte a un reato. In caso contrario, il problema si può risolvere solo attraverso una regolamentazione chiara dell’uso di questi strumenti”. In gioco c’è un concetto fondante del web: la libertà. “Stiamo avvicinandoci all’uso del documento di identità per accedere alla Rete? Personalmente spero di no. Ma, se così fosse, almeno si tratterebbe di una risposta concreta a un problema emergente. Diversamente, se non esistono leggi in materia, a mio avviso non possiamo parlare di reati”, conclude.

Il ruolo della famiglia

Ma si può delegare la questione ai parlamenti? Possono entità statali o parastatali sciogliere un nodo che alberga nel quotidiano di ogni famiglia? Su questa domanda insiste Giuseppe Pozzi, psicoterapeuta, allievo di Franco Fornari, nel corso di una carriera quarantennale ha lavorato con casi difficili, gravi forme di autismo e psicosi. “La questione delle challenge su TiktTok e altri social credo sia legata a una sorta di ‘almeno qualcuno si occupa di me’ – ragiona lo psicoterapeuta -. C’è una grande differenza tra essere riconosciuti e sentirsi amati. E, contrariamente a quanto si crede i bambini, più che di amore, hanno bisogno proprio di riconoscimento”.

Le challenge anche più semplici possono rappresentare l’adesione a una comunità, seppur surrogata e virtuale. “L’incontro con l’altro continua a essere fondamentale per i ragazzi, ma oggi è sempre più evanescente. Come nelle classi di trenta bambini, dove è impossibile per il docente instaurare una relazione con tutti. Il dialogo permette di sublimare, in termini freudiani, la pulsione di morte. Violenza contro sé stessi o contro l’altro non fa poi molta differenza. Per questo il bambino si lascia sedurre dalla sfida: perché, almeno in quella, trova un battito di vitalità, un esserci”, dice l’esperto.

Il ruolo della stampa

E poi c’è il ruolo della stampa e la ricerca di una spiegazione prêt à porter può condurre esperti formati nelle università a ragionamenti circolari, autoindulgenti e a trascurare variabili rilevanti. Ma la stampa ha davvero un ruolo nei fenomeni di emulazione?

Qualche studio al riguardo esiste. Attorno al 1978, quando fu realizzata la metropolitana di Vienna, in città si registrò un aumento improvviso del numero di suicidi: le persone sceglievano di togliersi la vita gettandosi sotto il nuovo treno. La copertura quotidiana dei giornali e i toni drammatici usati per descrivere il fenomeno spinsero un gruppo di ricercatori a chiedersi se l’attenzione mediatica potesse essere un fattore in più nella decisione di farla finita. Dopo qualche anno furono così pubblicate, nel 1987, alcune linee guida per i mezzi di comunicazione: tra le altre, evitare di parlare di suicidi nel titolo, non fornire dettagli, cercare di non proporre questa tipologia di notizie con frequenza e risalto eccessivi. Il risultato fu confortante: le vittime calarono, e da allora il dato è rimasto costante.

Il compito delle piattaforme

Se delicato è il ruolo della stampa nella copertura di questi temi, altrettanto lo è quello delle piattaforme sulla moderazione dei contenuti: filtri automatici e policy non sono sempre sufficienti e il ruolo del moderatore non è semplice. Alcuni, dopo mesi passati a censurare filmati, hanno accusato sindromi da stress post-traumatico.

Dopo il caso di Palermo, TikTok ha diffuso una nota ufficiale: “Siamo davanti a un evento tragico e rivolgiamo le nostre più sincere condoglianze e pensieri di vicinanza alla famiglia e agli amici di questa bambina. La sicurezza della community TikTok è la nostra priorità assoluta. Per questo motivo non consentiamo alcun contenuto che incoraggi, promuova o esalti comportamenti che possano risultare dannosi. Utilizziamo diversi strumenti per identificare e rimuovere ogni contenuto che possa violare le nostre policy. Nonostante il nostro dipartimento dedicato alla sicurezza non abbia riscontrato alcuna evidenza di contenuti che possano aver incoraggiato un simile accadimento, continuiamo a monitorare attentamente la piattaforma come parte del nostro continuo impegno per mantenere la nostra community al sicuro”.

La pista della “challenge” mortale non trova riscontri, come finora è stato nel caso di fenomeni come Blue Whale o Jonathan Galindo, di cui non si sono mai trovate tracce benché pompati a livello mediatico, benché l’azienda si sia resa disponibile per approfondire le indagini. E di suo ha adottato da gennaio misure più stringenti proprio per tutelare gli utenti minori, benché ora il Garante della privacy voglia vederci chiaro sul controllo dell’età in fase di iscrizione.

Il meccanismo è ancora lontano dall’essere perfetto. “Ho provato io stessa a segnalare un filmato che mi sembrava pericoloso su TikTok” racconta Maraffino: “Il social ha risposto prontamente al reclamo, ma la formula utilizzata mi ha lasciato il dubbio che ne sia stata impedita la visualizzazione soltanto a me. Insomma, che il contenuto sia rimasto online”. Sulla tutela dei minori in rete l’Europa potrebbe fare da apripista, come già accaduto con il Gdpr per la privacy. “Io credo occorra una convenzione internazionale sulle tematiche legate a una rete più sicura – conclude Maraffino -, dal cyberbullismo all’accesso per i minori alla gestione del materiale pericoloso”.

Verso una community più responsabile

Ma forse, nel cocktail dei tanti rimedi proposti per guarire la Rete, c’è bisogno di un antibiotico ad ampio spettro capace di un’efficacia che vada oltre i codici. Di tornare alle radici della parola “community” intesa come gruppo che si autocostruisce attorno a regole condivise.

Ne è convinto Matteo Flora, esperto di digitale, fondatore dell’agenzia The Fool e partner dello studio legale 42 Law Firm. “Cerchiamo una soluzione esterna al problema, ma il pericolo viene dalla normalizzazione, il fatto che accettiamo che tutto ci accada di fronte senza reagire”. In che senso? “Credo che una bambina con dieci profili e centinaia di follower nel suo viaggio online abbia incontrato qualche adulto, o un ragazzo  più grande, che si è reso conto che la piccola non aveva l’età per stare lì. Perché non l’hanno segnalato? Mi ricorda quel che avviene con i parcheggiatori abusivi: tollerati, perché in fondo si pensa che offrano un servizio utile. Allo stesso modo, mi chiedo: è normale vedere alunni e alunne delle elementari che ballano nei video sui telefonini? Non c’è uno stigma su questo, e forse aiuterebbe“.

Un controllo diffuso, una membership attiva,  consentirebbe di intercettare i casi di violazioni palesi che sfuggono alla moderazione. E potrebbe essere la chiave per le campagne di comunicazione mirate ai ragazzi. “Ma soprattutto, rivolte ai genitori“, afferma il tecnologo Stefano Quintarelli, tra gli inventori dello Spid. Che avanza una proposta su Agenda digitale: usare il sistema di identità digitale per accertare l’età degli utenti, attraverso un token di autenticazione fornito girato all’app, che consentirebbe l’accesso solo in presenza dei requisiti di legge. Una proposta che ha aperto un dibattito acceso tra esperti.

Una visione laica

Una disamina ampia serve soprattutto per sgombrare il campo dalle mistificazioni. E dalle illusioni. Come in tutte le cose umane, la perfezione non esiste. La Rete non sarà mai un Eden. Ma norme al passo coi tempi, relazioni familiari, senso della comunità e, ovviamente, strumenti tecnologici possono aiutare a rendere il web un posto migliore senza perdere per strada la libertà: ideale, che in fondo, è la sua ragion d’essere.

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