Le file ai gazebo sono un ricordo, ma le primarie rimangono un pilastro del Pd

AGI – Le lunghe file ai gazebo sono immagini che sembrano destinate agli archivi. La pandemia ha cambiato tutto e tutto ha messo in discussione, anche la partecipazione politica. Nel Partito democratico questa osservazione è condivisa pressochè da tutti, senza distinzioni di corrente. Per questa ragione gli 11 mila votanti delle primarie torinesi sono, per i dirigenti dem, un piccolo esercito da salvaguardare.

Effetto Covid

La paura del contagio è ancora presente negli italiani, viene spiegato dallo stato maggiore del Pd, e non c’è da stupirsi se le cifre dei prossimi appuntamenti non saranno di molto superiori. In ogni caso, lo strumento principe della vita democratica dentro il Pd non si tocca. “Noi, forse, guardando solo al nostro ombelico e pensando solo al nostro interesse le primarie avremmo anche potuto non farle”, ha spiegato Letta ieri sera a Bologna, nel corso di una iniziativa a sostegno del candidato Matteo Lepore: “Ma se vogliamo vincere le elezioni politiche, dobbiamo passare attraverso i problemi, risolverli e superarli”.

Il segno della forza del Pd

Insomma, per Letta decidere di fare le primarie “è il segno della nostra forza e vinceremo le elezioni solo se saremo forti e determinati“, aggiunge. Non solo: ma dopo un anno di pandemia e di politica da remoto, quello di Torino ha rappresentato un passo in avanti verso la normalità, anche nel confronto politico. La capogruppo dem al Senato, Simona Malpezzi, sottolinea infatti che “le primarie a Torino sono state il modo di riappropriarci di uno spazio fisico dopo la pandemia che ci ha cambiato profondamente. La partecipazione non era scontata, non lo sarà neanche per i prossimi appuntamenti, non siamo più abituati alla partecipazione di massa. Ma sono anche un modo di riappropriarci del nostro stare insieme”.

Meglio del centrodestra

Il deputato romano, già assessore della giunta Veltroni, Roberto Morassut non vede segnali di allarme dai risultati di Torino e rimarca la differenza fra chi sceglie la propria classe dirigente e chi si affida a decisioni calate dall’alto. Un riferimento nemmeno troppo velato al centrodestra che ha scelto i propri candidati nei comuni durante i vertici fra i leader. “Le primarie sono uno strumento di partecipazione che comunque è sempre meglio di una decisione calata dall’alto”, spiega Morassut. “C’è un confronto che coinvolge decine di migliaia di cittadini che a seconda dei periodi possono essere di più o di meno, ma questo è relativamente importante”.

La sfida Capitale

A dare ossigeno a questa partecipazione potrebbe essere proprio la Capitale. A Roma, infatti, si vota anche per eleggere i candidati nei 15 municipi e questo potrebbe spingere in alto l’asticella della partecipazione. Il segretario locale del partito, Andrea Casu, punta a superare i 47.300 votanti delle primarie 2016, quelle vinte da Roberto Giachetti.

L’idea del quorum

Chi sembra preoccupato dei dati delle primarie è il senatore Luigi Zanda che, in una intervista, spiega: “Dopo molti anni le primarie avrebbero bisogno di una messa a punto. Io credo che dovremmo cominciare a riflettere sull’opportunità di riservare ai soli iscritti l’elezione del segretario lasciando le primarie aperte agli elettori per la scelta delle cariche istituzionali. Tuttavia”, ammette, “la scarsa partecipazione preoccupa: bisognerebbe trovare un criterio per introdurre una sorta di quorum“. 

L’allarme dle candidato

Meno ottimista è uno dei candidati di Torino. Enzo Lavolta ha atteso che si posassero le polveri della sfida interna per dire la sua sullo stato dell’arte nel Pd e all’interno della coalizione di centrosinistra. “Queste primarie confermano le preoccupazioni che avevamo evidenziato. E’ necessario che il centro sinistra abbia l’umiltà di riconoscere di non aver saputo coinvolgere nel modo giusto la nostra comunità politica”.

Un riferimento alla distanza fra Pd e M5s nella città di Torino. Lavolta era infatti un candidato non sgradito anche a una parte del M5s torinese. Al contrario, la vittoria – seppur di misura – di un candidato che guarda al centro come Francesco Lo Russo sembra aver definitivamente allontanato la possibilità di una collaborazione fra i due partiti. Di qui l’allarme di Lavolta: “Se ci presentiamo agli elettori con questa modalità regaliamo la città alla destra. Resta un grosso rimpianto, ovvero non aver allargato da subito la coalizione. Ora bisogna mettersi al lavoro affinché il Pd non faccia l’errore di chiudersi in sé stesso”.

Il pallottoliere dem

Nonostante queste difficoltà, il pallottoliere in mano ai dirigenti dem parla di 7 capoluoghi di provincia su 14 al voto in cui l’alleanza fra centrosinistra e Cinque Stelle è già realtà. Ci sono poi i restanti 112 comuni in cui lavorare. Numeri di per sè confortanti, dato che nel 2016 si perse in città importanti come Roma e Torino proprio per l’assenza di questi accordi. A Roma, ad esempio, il candidato Roberto Giachetti correva contro il resto del centrosinistra che aveva espresso, tra gli altri, Stefano Fassina. A Torino, il sindaco del Pd uscente Piero Fassino se la vedeva con l’altro candidato della sinistra, Giorgio Airaudo, con il risultato che tanto Roma quanto Torino andarono ai Cinque Stelle.

Da questo punto di vista, il Pd ha fatto dei passi avanti, che non mettono ancora in sicurezza il risultato, ma che spingono all’ottimismo, anche dove la sfida è – sulla carta – piu’ complicata. A Roma, ad esempio, rimane l’incognita dell’apparentamento con il M5s, che oggi sembra lontano: “Ci misureremo dopo il primo turno, vedremo come si metterà. Ma siamo convinti di vincere”, dice un esponente dello stato maggiore dem. 
 

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