Tutti in fila per il test sierologico, ma il sogno può diventare incubo, e vi spieghiamo perché

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Con la fase 2 è partita la corsa al test, non sempre per reale necessità ma anche per curiosità o nella speranza di scoprirsi già guariti e, presumibilmente, provvisoriamente, immuni. Ma raggiungere il traguardo può essere arduo e tutt’altro che liberatorio con regole e limitazioni diverse da regione a regione e tempistiche imprevedibili. In linea generale, oggi in Italia i tamponi si fanno solo nelle strutture pubbliche e solo su prescrizione medica mentre i test sierologici si possono effettuare anche privatamente, quasi sempre senza bisogno di prescrizione. Ma non è detto che poi le cose stiano sempre così: in Lombardia per esempio è tutto affidato ai privati (tamponi compresi), mentre in Emilia Romagna e nelle Marche il test sierologico si fa, a pagamento, solo su richiesta del medico.

Prima affannarsi a scoprire come e dove fare il test, meglio capire se ne vale la pena. Cosa ci possono veramente dire i test sierologici? E a quali rischi possono esporci, oltre a quello di sprecare soldi e risorse?

La diagnosi la fa il tampone

A oggi, come ricorda il Ministero della Salute, il test con tampone è l’unico metodo che abbiamo per fare la diagnosi di infezione in corso, sapere se si è malati. È quindi uno strumento clinico fondamentale e per questo, e anche per la penuria di reagenti, viene eseguito principalmente nelle strutture pubbliche, prioritariamente a chi ha sintomi compatibili con Covid 19, a sanitari e lavoratori a rischio.

Il test rileva la presenza del materiale genetico del virus all’interno di un campione prelevato di norma dalle mucose del naso. L’efficacia diagnostica del tampone è piuttosto alta in pazienti sintomatici entro la prima settimana dall’inizio dell’infezione mentre scende notevolmente nelle settimane seguenti e nel caso di infezioni asintomatiche, in cui la carica virale può risultare troppo bassa per essere individuata.

I test sierologici ti raccontano una storia

Se il tampone parla solo del presente, le analisi sierologiche invece ci raccontano anche il passato. Ci dicono infatti se nel nostro organismo circolano anticorpi specifici contro il coronavirus. Si eseguono sul plasma, ottenuto con un prelievo di sangue. Ce ne sono di tanti tipi, circa 100 i kit in uso, diversi nell’esecuzione e anche nell’affidabilità del risultati. Si va da quelli rapidi, per i quali basta una goccia di sangue e in breve tempo, anche poche decine di minuti, si ha l’esito sotto forma di sì/no, per arrivare a quelli che necessitano di un piccolo prelievo di sangue, più affidabili e capaci di misurare la quantità di anticorpi presenti nel plasma, ma con tempi di attesa più lunghi.

Pur con diversa metodologia, quasi tutti i test sierologici per Covid-19 individuano due tipi di anticorpi, ovvero di proteine (immunoglobuline) prodotte dal sistema immunitario per combattere l’invasione di Sars-Cov-2. È una risposta in due tempi: le immunoglobuline M (o IgM) intervengono rapidamente, entro una settimana dal primo contatto con il virus, per tenerlo a bada in attesa che il sistema immunitario elabori le più efficaci immunoglobuline G (o IgG), specifiche e prodotte in quantità maggiori ma, appunto, solamente nelle fasi più avanzate della malattia.

Per questo motivo il test sierologico può (almeno in teoria) raccontare la storia dell’infezione. Gli scenari sono tre:

  • se trova le IgM la battaglia con la battaglia con il virus è probabilmente in atto (e il paziente infettivo);
  • se trova entrambi gli anticorpi, IgM e IgG, in quantità simili l’infezione è in fase avanzata,
  • se rileva solo IgG vuol dire che, probabilmente, si è già guariti e, potenzialmente, immuni (almeno per qualche tempo) da nuove infezioni.

Il test sierologico può quindi rilevare se si è malati, se l’infezione è in corso, tuttavia utilizzarlo a fini diagnostici è complicato. Il responso infatti non è definitivo, e ciò è dovuto al fatto che:

  • può dare (illusoriamente) esito negativo se eseguito nella prima settimana dall’incontro con il virus, quando l’organismo non ha ancora iniziato a produrre anticorpi;
  • c’è un’alta variabilità nella specificità e sensibilità tra i diversi kit in commercio (probabilità di falsi positivi e falsi negativi)
  • la presenza di sole IgG non esclude che ci sia un’infezione ancora in atto, il che rende necessario l’utilizzo di un tampone per scoprire se si è contagiosi (e nel caso malaugurato stare in quarantena).

È per tutti questi motivi di incertezza che il ministero della salute esclude l’impiego diagnostico del test sierologico in equivalenza al tampone mentre ne raccomanda l’utilizzo a fini epidemiologici.

Test sierologici: se il sogno diventa incubo

Nonostante le indicazioni del Ministero, i test sierologici sono disponibili sul mercato, più o meno liberamente accessibili (nelle Marche, come dicevamo, serve prescrizione del medico). I prezzi sono abbordabili (vanno dai 25-30 euro fino a circa 100 per un servizio a domicilio) e i tempi rapidi (qualche ora di attesa a meno di intoppi). E’ comprensibile che, a parte chi ha motivazioni oggettive – per esempio l’essere stato in contatto con pazienti Covid-19 o, dopo la guarigione, voler donare il plasma – molti siano tentati di fare il test. Magari di poter acquisire un patentino di immunità (per il quale ad oggi manca una ratio scientifica) e non trovarsi spiazzati nel caso in cui divenisse un requisito per poter accedere alla destinazione delle agognate vacanze. Ipotesi questa ventilata da qualche regione ma che al momento non ha trovato conferme. Prima di decidere di fare il test – mobilizzando risorse – meglio chiarirsi le idee su cosa, veramente, può dirci e se ne vale la pena.

Vediamo i possibili scenari, a seconda dell’esito del test.

Se si risulta negativi (assenza dei due anticorpi), pur con la possibilità ineliminabile di errori, non sono necessari ulteriori accertamenti, a meno che non si presentino sintomi riconducibili a Covid 19. Si avrà in tal caso la certezza di non aver mai incontrato il virus.

Se invece il risultato è positivo diventa opportuna una verifica. Come dicevamo, infatti, non si può essere certi che l‘infezione non sia in atto, nemmeno se ci sono alti livelli di IgG. A quel punto, serve un tampone per eliminare ogni dubbio, ed è qui che iniziano i dolori: in regioni come l’Emilia Romagna, il Lazio o le Marche sottoporsi al tampone in questi casi è obbligatorio. Il che significa rimanere in attesa di essere chiamati per effettuare il test e poi di ricevere i risultati stando, per sicurezza, in isolamento fiduciario a casa, dove bisogna evitare i contatti anche con i propri conviventi, comportandosi come se si fosse infetti. Ovviamente, se l’esito del tampone è positivo, si risulta malati di Covid-19, si dovrà continuare la quarantena fino alla risoluzione della malattia.


Coronavirus: i pazienti guariti non sono contagiosi anche se positivi al tampone


A complicare il tutto c’è poi il fattore tempi, in questa fase emergenziale meno che mai certi. Il rischio è di rimanere giorni, se non settimane, bloccati a casa in attesa di sottoporsi al tampone o di ricevere i risultati. E anche con responso negativo, la situazione non cambia poi molto: avere la certezza di essere guariti da Covid-19 non equivale a un patentino di immunità. Non è ancora chiaro se si sviluppa immunità nei confronti di Sars-Cov-2, e nel dubbio anche chi è guarito dalla malattia deve continuare a comportarsi come il resto della popolazione, evitando comportamenti che espongono al rischio di contrarre il virus, utilizzando le mascherine nei luoghi affollati e rispettando il distanziamento sociale.

A cosa servono veramente i test sierologici ora

Se, al momento, i test sierologici hanno un’utilità molto limitata sul piano individuale, sono invece fondamentali quando si parla di comunità o popolazioni, vele a dire, di studi epidemiologici. Parliamo delle cosiddette indagini di sieroprovalenza, come quella lanciata nelle scorse settimane dal Ministero della Salute, che punta a testare 150mila persone rappresentative della popolazione italiana per sesso, età e aria geografica. Uno studio chiesto a gran voce da molti scienziati e rimandato fin troppo a lungo, che permetterà di stabilire quale percentuale della popolazione è già entrata in contatto con Sars-Cov-2, un virus di cui attualmente è impossibile stabilire la reale diffusione visto che risulta asintomatico o scarsamente sintomatico in un’ampia maggioranza dei casi. I risultati aiuteranno quindi a calcolare con più precisione la letalità del virus, a verificare quale percentuale degli infetti risulta asintomatica, e monitorare con più precisione la situazione nelle diverse regioni italiane. Sperando di scongiurare una nuova ondata.

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