David Dobrik e i limiti della “YouTube culture”

L’ennesimo caso di star della piattaforma video finita sotto i riflettori per le ragioni sbagliate ci porta a riflettere sulla rituale ascesa e la caduta degli youtuber: perché i “creatori di contenuti” ci ricascano sempre?

David Dobrik ha 24 anni e fa lo youtuber. È il leader di un ensemble chiamato  The Vlog Group, proprietario di un canale YouTube da 18.9 milioni di iscritti e 8.2 miliardi di visualizzazioni. Il Wall Street Journal lo ha ribattezzatoil Jimmy Fallon della Generazione Z” e Forbes lo ha inserito nella lista 30 under 30. Il suo patrimonio personale ammonta a 20 milioni di dollari, vive una villa losangelina valutata intorno ai 2.5 milioni e regala macchine Tesla ai suoi fan (a patto che questi si registrino per votare alle elezioni). People magazine nel 2020 lo ha incoronato il più sexy tra le star di YouTube e Spotify ha ritenuto che la sua fosse la voce giusta per la versione audiolibro del Frankenstein di Mary Shelley (gli youtuber saranno mica i nuovi Prometeo?).

David Dobrik sta passando un momentaccio: una donna ha raccontato a Business Insider di essere stata violentata da un allora membro della sua squad, Dom Zeglaitis, durante una festa tenutasi nel 2018. Dobrik ha ripreso e poi pubblicato su YouTube il momento in cui Zeglaitis porta la donna nella camera da letto in cui sarebbe avvenuta la violenza: lei sarebbe stata palesemente ubriaca, il consenso ovviamente impossibile. Il video è stato poi rimosso da Dobrik su richiesta della donna. Nell’articolo di Business Insider Trisha Paytas, amica della presunta vittima, ha confermato che le ragazze presenti a quella festa erano minorenni.

Appena uscito il pezzo su Business Insider, la macchina si è subito messa in moto. Doordash, HelloFresh, Ea Sports e Spark Capital hanno stracciato i loro contratti con Dobrik. Gli utenti dell’App Store di Apple hanno cominciato a riempire di recensioni negative Dispo, l’applicazione di photo-sharing che Dobrik ha contribuito a creare, tanto da costringere lo youtuber a dimettersi dal consiglio di amministrazione dell’azienda. Dobrik ha pubblicato due video in cui spiega l’accaduto e chiede scusa: per lui il consenso è una cosa “super super importante”, dice (ma non così importante da assumere un consulente linguistico che lo aiuti a parlarne come gli adulti parlano delle cose serie, evidentemente). È una macchina che conosciamo ormai alla perfezione e che sappiamo gira a vuoto: il ciclo di scandalo-indignazione-scuse non finisce mai davvero, ricomincia sempre dall’inizio, un moto perpetuo che ormai fatica ad attrarre l’attenzione per più di un news cycle

Subito dopo l’uscita dell’articolo su Business Insider, ovviamente gli eserciti si sono schierati sul campo di battaglia seguendo i movimenti comandati ormai dall’abitudine: da un lato quelli secondo i quali qualsiasi richiesta di assunzione di responsabilità è cancel culture, dall’altra quelli secondo i quali qualsiasi conseguenza che non sia l’ostracismo è indulgenza. Inevitabilmente l’occhio dell’opinione pubblica indugia sul dito e alla fine si fa sfuggire la luna, e la luna in questo caso è una domanda: perché continua a succedere? Scemenze dette e fatte, reati presunti e accertati: il faldone delle accuse nei confronti di youtuber e YouTube continua a ingrossarsi e l’impressione è che nessuno sappia più che fare. Si cambiano le linee guida della piattaforma, ma non basta. Si migliorano le pratiche di moderazione dei contenuti e dei commenti, ma non serve. Si impedisce la monetizzazione dei video problematici e si chiudono i canali dopo lo strike tre, ma non funziona. Una parte del problema sta sicuramente nella piattaforma: YouTube, come tutti i social media, è una macchina alimentata a eccessi, è un cuore che pompa esagerazione in un sistema circolatorio che distribuisce in base alla perversa logica algoritmica. Per quanto raffinato possa diventare l’ingranaggio che lo muove, YouTube resterà sempre la piattaforma che vieta di monetizzare il video scandaloso ma permette di guadagnare con il video in cui ci si scusa per il video scandaloso.

Ma di tutta la sacrosanta attenzione che nella nostra epoca si dedica alle responsabilità e mancanze di Big Tech (e non può che essere così quando si diventa il settore con più lobbisti a libro paga, più di Big Oil e Big Tobacco), una parte andrebbe conservata per i cosiddetti creatori di contenuti. Perché gli youtuber e tutti gli altri -er che popolano i nostri dispositivi – influencer, instagrammer, tiktoker – ci cascano e ricascano, sempre e comunque? La speranza qui non è la cancellazione (che poi è mera e temporanea marginalizzazione, si sa): nessuno va ridotto alla sua parola più scema e alla sua azione più idiota, a tutti va concessa la possibilità di sbagliare e la speranza di migliorare, se si andassero a scandagliare i canali social di ognuno di noi fino a prima della maggiore età chissà che verrebbe fuori, altro che le scuse. La pretesa qui è la responsabilizzazione: impara a stare al mondo, si potrebbe riassumere. Cresci, si potrebbe dire. Ma come si fa a diventare grandi quando si sono raggiunte fama e ricchezza da ragazzini e grazie ad altri ragazzini? Mica tutti sono Sofia Viscardi, mica tutti son capaci a mollare i giocattoli dell’infanzia, a chiuderli nello scatolone, a infilarli in un angolo del ripostiglio.

Gli youtuber vivono e prosperano in una cultura della celebrità diversa da quella che è esistita prima dei social media, una cultura radicale, selvaggia, pervasiva, ossessionata, ossessionante, un mercato perfettamente lasseiz fare in cui ogni mezzo è lecito per vincere un’unità di attenzione in più. Se necessario, fingi che la tua ragazza sia morta come fece ImJayStation o inscena un rapimento e omicidio come fece Sam Pepper: quelli che si offenderanno alla fine si dimenticheranno dell’offesa, quelli che metteranno mi piace, invece, non lo toglieranno più. È la stan culture, inquietante sin dall’etimologia: stan potrebbe essere la crasi di stalker e fan come potrebbe essere una citazione della canzone omonima di Eminem che parla di un fan impazzito, il dizionario urbano ancora non dà indicazioni chiare. La stan culture è la New York dei Guerrieri della notte, uno scontro eterno tra Beliebers, Swifties, Barbz, un post-apocalittico nel quale tutto ciò che rimane è l’assoluta fedeltà a un idolo infallibile e inattaccabile, quello al quale si concede la fede premendo sul tasto follow, sul bottone subscribe. La stan culture è la ragione per la quale ogni volta che uno youtuber si scusa per una scemenza detta o fatta viene in mente quella scena di Boris in cui Pedro Benitez, lo scalatore delle Ande, invita i ragazzi a dire no alla droga: non ci credono nemmeno loro.

La stan culture è la ragione per la quale le scuse oramai sono solo un pezzo di ritualistica senza senso né significato: lo youtuber si rivolge allo stan (il membro della setta della quale è guru) ed è implicita la consapevolezza che è tutta una formalità, che l’idolo non ha niente di cui scusarsi perché non può sbagliare mai, che il pentimento è una liturgia necessaria per gli esclusi dal rapporto personale che lega ogni idolo al suo idolatra. La stan culture è la ragione per la quale non c’è correlazione né causazione tra il contenuto prodotto da uno youtuber e le sue visualizzazioni: Logan Paul può andarsene in giro per il bosco di Aokigahara a riprendere cadaveri tutte le volte che gli pare, e tutte le volte il contatore delle visualizzazioni segnerà lo stesso numero. La stan culture è la ragione per la quale youtuber ormai adulti continuano a dire e fare le stesse fesserie di quando erano adolescenti che volevano solo occupare quel che rimaneva del pomeriggio dopo aver finito i compiti e prima che i genitori li chiamassero al tavolo della cena: se non è contemplato l’errore, non è concesso l’apprendimento. Quando PewDiePie fu sbertucciato dal Wall Street Journal per l’antisemitismo (reiterato, esplicito) di certe sue gag, reagì pubblicando un video in cui si lamentava di essere lui la vittima, il bersaglio di “tre signori” che volevano sminuirlo e impoverirlo, lui l’innocente goliarda accerchiato da quelli che, loro sì, normalizzano l’odio. Il video in questione è stato cancellato, purtroppo non c’è più modo di leggere l’ovazione con cui gli stan dello youtuber svedese salutarono il “figli di puttana” con cui il loro idolo rispedì al mittente le critiche del Wsj. Passata quella nottata, PewDiePie tornò al centro dell’attenzione per aver usato la n-word durante una diretta streaming: se non è contemplato l’errore, non è concesso l’apprendimento, cvd. La stan culture è la ragione per la quale le aziende che interrompono i rapporti con lo youtuber finito in mezzo all’indignazione del momento, alla fine da quello youtuber tornano sempre e comunque: lo scandalo finisce, l’indignazione passa, i follower e i subscriber restano. Anzi, spesso lo scandalo fa acquisire potere contrattuale: il video del 2018 in cui si scusava per certa ironia sulla pedofilia – un esempio: finse di masturbarsi su una foto dell’allora undicenne Willow Smith – fece guadagnare a Shane Dawson (22 milioni di iscritti al suo canale) centinaia di migliaia di nuovi seguaci.

Secondo una ricerca di Insider, l’unico che può decidere la sorte di uno youtuber è lo youtuber stesso: i numeri peggiorano solo se smette di pubblicare nuovi contenuti. Nemmeno essere cacciati e banditi dalla piattaforma sembra bastare: c’è sempre un’alternativa, si trova sempre una nicchia, il mercato dell’idiozia non dorme mai. E viene da chiedersi da dove sia spuntato il dibattito sulla cancel culture: al massimo si è costretti a spostarsi, a traslocare. Insomma, persino Gina Carano ha trovato lavoro subito dopo (e forse proprio grazie al fatto di) essere stata licenziata da Disney. 

Si dirà: ma che si può fare, oltre a consigliare alla mamma degli imbecilli di cominciare a prendere gli anticoncezionali? Forse nulla, probabilmente ha già detto tutto il presidente Jed Bartlet nel pilota di The West Wing: la libertà d’espressione val bene un giornaletto porno esposto dove anche un ragazzino può vederlo. Però sempre più spesso mi chiedo: non è evidente che qualcosa è andato storto, che qualcosa non funziona, se ormai l’esistenza di certe piattaforme, di certi contenuti, di certi creatori si giustifica solo con l’inviolabilità del Primo emendamento?

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